Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente: l’estetica del bene contro la banalità del male

"Hunger Games - La ballata dell'usignolo e del serpente:" la recensione del prequel della celebre trilogia diretta da Francis Lawrence fuori il prossimo 15 novembre

Le sale cinematografiche d’Italia e del mondo sono pronte a gremirsi di spettatori. Manca infatti sempre meno all’uscita, il prossimo 15 di novembre, del nuovo capitolo della saga di Hunger Games. Orfano di Jennifer Lawrence, protagonista indiscussa della celebre trilogia, Francis Lawrence riadatta con successo l’omonimo romanzo di Suzanne Collins, antecedente narrativo delle gesta eroiche di Katniss Everdeen e della rivolta da lei inaugurata e coraggiosamente condotta.

Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente: la trama

La trama di “Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente” si sviluppa attorno alla storia di Coriolanus Snow, interpretato da Tom Blyth, e della giovane tributo Lucy Gray Baird (Rachel Zagler). Ambientato 64 anni prima degli eventi della saga principale, in una Capitol City ancora devastata dalla recente guerra contro i ribelli e prossima alla decima edizione di una versione bruta e rudimentale degli Hunger Games come abbiamo imparato a conoscerli, il film ripercorre dagli albori l’ascesa al potere e la parallela corruzione morale di Coriolanus Snow – il futuro presidente di Panem contro il quale si ribellerà successivamente Katniss Everdeen.

Suddivisa in tre parti, come del resto l’omonimo romanzo da cui è tratta, la storia prende improvvisamente una svolta brusca e inaspettata (per chi non avesse letto il libro). Ambizioso e vincente per natura, Snow sembra infatti partire con le migliori intenzioni. Tutto quello che desidera (prima che il dente avvelenato del desiderio gli trafigga l’anima) è infatti risollevare il nome della sua famiglia, regalando alla sorella e alla nonna un futuro più roseo.

In questa prima fase, a (s)muoverlo sono quindi sentimenti puri come l’affetto per i propri cari e un forte senso dell’onore. Quando incontra il proprio tributo, una ragazza libera e sfrontata dalla voce angelica e innocente, la musica tuttavia cambia improvvisamente. Determinanti, a questo punto, divengono la passione (per lei) e la sete di potere, in un gioco d’intrecci che soltanto nella terza ed ultima parte si scioglierà definitivamente, con il trionfo della seconda a discapito della prima.

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Così, il personaggio di Coriolanus Snow nasce e si sviluppa, scegliendo infine il cammino del male e percorrendolo con crescente convinzione e sagacia. Così, parallelamente, si staglia e si ri-conferma quello di Lucy Gray Baird, votato fin dal principio al bene e sempre più limpido e armonioso (non solo dal punto di vista musicale), tanto nelle proprie scelte così come nel proprio fiero incedere.

Il finale, tristemente aperto a un futuro che già conosciamo, è spaccato come una crepa: da un lato, il frastuono di un potere tronfio e malvagio, dall’altro il canto silente di una bontà coraggiosa e lontana. Scomparsa una volta per tutte, apparentemente, ma in realtà sempre pronta a riecheggiare nuovamente nei cuori di coloro che sapranno ascoltarla.

Hunger Games: la banalità del male secondo Francis Lawrence

La pellicola, fedele in questo al romanzo della Collins, ruota tutta intorno al Male. In un certo senso, lo sviluppo narrativo del film è una ballata a tutti gli effetti, e ci mostra la danza, rigida e subdola, per mezzo della quale la malvagità si insinua nel cuore umano.

A fare da cornice, proprio come nel celebre saggio della Arendt (“La banalità del male“), una società viziata e incapace di interrogarsi, in seno alla quale tutto ciò che conta non è avere ragione, ma imporre la propria volontà. Affermare il proprio potere.

Il Male, in questo senso, non è più una scelta, bensì una ferrea necessità: o si mangia, o si verrà mangiati. Così è, se non altro, per Coriolanus, il quale sceglie la via della prevaricazione e della malvagità senza pensarci due volte. Così è, più in generale, per la stragrande maggioranza del pubblico degli Hunger Games: popolino bue che affoga il peso della propria inutilità e della propria insoddisfazione nel Colosseo di Capitol City, dimenticando i valori della dignità umana e del perdono.

Non va meglio ai pochi che non riescono a dimenticare, a quanti riflettono e sbugiardano la banalità del Male. È il caso del Decano Casca Highbottom (Peter Dinklage), che per irretire la propria consapevolezza e sopportare la propria sfiducia nei confronti del genere umano si dà alla droga, o della sorella di Coriolanus, la quale nelle battute conclusive del film non può far altro che constatare con immensa tristezza la definitiva corruzione morale del suo unico fratello.

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Hunger Games: per un’estetica del bene

Dalle tenebre, tuttavia, emerge una luce. Un bagliore di speranza. È la voce di Lucy Gray Baird, interpretata da una superlativa Rachel Zagler, la quale ricorda a tutta Capitol City, seppur soltanto per alcuni istanti, i valori del bene e della fratellanza.

La fiducia e la speranza trovano quindi riparo nella musica, in essa si rifugiano e da essa proliferano. Canta perciò il tributo, anche quando intorno non è altro che morte e disperazione. Canta, ancora, quando il proprio amore viene subdolamente tradito. E canta, canta e non tace, consapevole del fatto che ciò che davvero conta mai potrà essergli sottratto.

“Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente”, in fondo, non è altro che questo: un invito ad ascoltare. Il frastuono dei media e la fame di potere ci rendono spesso sordi e ciechi, come è effettivamente per Coriolanus, ma per quanti vogliano ancora ascoltare, per quanti desiderino ancora vedere, risuona, dolce e soffusa, la melodia del bene, e danza, sfrontata e coraggiosa, le libertà di decidere.

Scritto da Andrea Crenna

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