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In un mondo dove la tradizione si scontra con l’effimero, i registi Gianluca e Massimiliano De Serio si presentano al festival di Bologna con un film che si propone di esplorare le contraddizioni della cultura italiana. Ma chi sono veramente questi due? E perché si sentono in diritto di raccontare le storie di persone che, probabilmente, non saprebbero nemmeno come definirsi? Ah, la vita è un circo, e loro sono i pagliacci sul palco.
Canone effimero: un titolo che parla da sé
“Canone Effimero” è un titolo che pare volerci prendere per il culo, giusto? Gianluca De Serio, durante la conferenza stampa, spiega come il titolo sia emerso durante il montaggio. Perché, diciamocelo, trovare un titolo che racchiuda l’essenza di un’opera è come cercare di infilare un elefante in una scatola di scarpe. E così, in questo film, si intrecciano codici e insegnamenti di una cultura che, per quanto possa sembrare solida, è destinata a svanire nel nulla. Non vi sembra un ossimoro? Ma ehi, chi siamo noi per giudicare?
La tensione tra il canone e la caducità
Il regista continua, parlando di come questa tensione tra quello che è tradizione e quello che è effimero si manifesti nel film. Cosa c’è di più effimero delle farfalle che vivono solo un giorno? Eppure, ci ostiniamo a voler costruire monumenti della memoria, come se la vita avesse una sorta di senso logico. Ma chi ci dice che le storie che raccontiamo abbiano valore? Le architetture barocche, che esplodevano in tutta la loro gloria per poi essere distrutte, sono un perfetto simbolo di questo dramma esistenziale. Che tristezza, vero?
Un film che racconta storie dimenticate
Massimiliano, con un tono quasi melancolico, ammette che la vita dei protagonisti del film gli sfuggiva tra le dita, quasi come sabbia. E lì, tra un ricordo e l’altro, ci si rende conto che molti dei soggetti che raccontano le loro storie non ci sono più. I morti parlano, ma noi siamo troppo occupati a girare il film per ascoltarli. Ma chi siamo noi, davvero, per pensare di immortalare qualcuno? La risposta è semplice: siamo dei fottuti egoisti.
Tradizione o invenzione?
Le parole di Gianluca risuonano come un mantra: “La tradizione non è solo ciò che viene studiato nei libri”. E allora, cosa significa davvero? Un ragazzo che costruisce tamburelli non persegue una tradizione accademica, ma riporta in vita le canzoni di un nonno partigiano. Qui si parla di un patrimonio che non è codificato, ma pulsante, vivo. E mentre noi ci affanniamo a cercare risposte, il mondo continua a muoversi attorno a noi, reinventando la tradizione con una nonchalance che fa girare la testa.
Ma attenzione: non è un gesto di nostalgia. È una ribellione al sistema che ci vorrebbe omologati e asettici.
Riflessioni sulla tradizione orale
Massimiliano sottolinea l’importanza di decontestualizzare i canti e i racconti. E qui si apre un mondo: le giovani donne arbëreshë che cantano nei festival, ma portano il loro patrimonio in altri contesti. La tradizione non è morta, è viva, e si evolve. È un atto di resistenza. E noi? Noi siamo qui, a guardare questo spettacolo, chiedendoci se abbiamo ancora un posto in questo circo.
Il film e la sua struttura
La costruzione del film è stata un’impresa titanica, eppure i De Serio riescono a condensare tutto in due ore. Ma quale prezzo hanno pagato per questo? Hanno dovuto sacrificare storie, emozioni, e in alcuni casi persino la verità. Ma chi se ne frega? Alla fine, la verità è soggettiva, e il loro film è un tentativo di catturare qualcosa che scivola via come l’acqua tra le mani.
E mentre i registi cercano di rendere giustizia a queste storie, noi ci ritroviamo a chiederci: chi siamo noi per giudicare? Forse, la vera domanda è se abbiamo il diritto di raccontare storie che non sono le nostre. E così, mentre il festival si prepara a chiudere i battenti, ci resta solo un’amara consapevolezza: la tradizione è un concetto in continua evoluzione, e noi, semplici spettatori, siamo destinati a rimanere nell’ombra.