Argomenti trattati
In un mondo dove il patriarcato sembra dominare indisturbato, un film emerge come un potente grido di protesta. Raccontare le vicende di Mahnaz, una madre single, equivale a mettere in luce una realtà che molti tentano di ignorare. Il dramma si muove tra le pieghe di una società oppressiva, dove i legami familiari e le ingiustizie sociali si intrecciano in un racconto che tocca il cuore e la mente. Con il suo stile caratteristico, il regista iraniano Saeed Roustaee ci porta in un viaggio di conflitti e vendetta, rendendo la sua opera un manifesto politico indimenticabile.
Un personaggio che grida da dentro
“Questo personaggio era qualcosa che mi gridava nella testa”, afferma Roustaee, descrivendo la sua protagonista. Con un passato artistico segnato dalla lotta contro le ingiustizie, il regista trova nella figura di Mahnaz un simbolo di resistenza. Se in precedenti lavori come “Leila e i suoi fratelli” la narrazione si concentrava su una donna circondata da uomini, qui il punto di vista è esclusivamente femminile, con l’unica eccezione rappresentata dall’uomo che incarna tutti i difetti e l’arroganza di genere. Questo ribaltamento di prospettive è una delle chiavi di lettura del cinema persiano, dove la semplicità apparente nasconde un profondo disincanto.
Il dramma familiare come specchio della società
Nella sua essenza, il film esplora come la famiglia possa diventare un microcosmo delle tensioni sociali. Mahnaz, l’eroina, è un’infermiera che si trova a dover gestire un’esistenza complessa con due figli. La sua vita prende una piega tragica quando scopre che l’uomo che ama, Hamid, ha una relazione con sua sorella. Questa rivelazione è solo l’inizio di una serie di eventi che culminano in una tragedia inaspettata. La morte del figlio, espulso da scuola in circostanze ambigue, apre un vaso di Pandora di responsabilità e indagini che mettono in luce le storture di un sistema che garantisce impunità ai colpevoli.
La ricerca di giustizia e la vendetta
Il viaggio di Mahnaz diventa così una ricerca disperata di giustizia, immersa nelle profondità di un sistema giudiziario che sembra favorire solo gli uomini. La frustrazione cresce mentre la madre affronta le negligenze e i cavilli legali, rendendosi conto che la sua lotta è destinata a essere lunga e dolorosa. Qui, la vendetta si fa strada nella mente di Mahnaz, alimentata dalla rabbia e dal dolore. La sua determinazione a risolvere la questione la porterà a confrontarsi con figure che rappresentano l’arroganza di genere, rendendo la sua battaglia un simbolo di una lotta ben più ampia.
Un finale che parla senza parole
La scena finale del film è un autentico capolavoro visivo. Roustaee utilizza inquadrature suggestive per catturare gli sguardi dei personaggi attraverso i vetri delle finestre, creando un simbolismo di trasparenza e comunicazione. In un silenzio carico di significato, gli occhi raccontano storie che le parole non riescono a esprimere. Questo utilizzo del linguaggio visivo è un tratto distintivo del cinema iraniano, che riesce a trasmettere emozioni profonde senza bisogno di parole. Infatti, la bellezza di questa narrazione sta nel modo in cui riesce a rappresentare la consapevolezza e la forza delle donne, senza mai nascondere il dolore e le ingiustizie.
Un messaggio di urgenza
In un panorama cinematografico dominato da produzioni che spesso trascurano le tematiche sociali, questo film si distingue per la sua urgenza e rilevanza. Con la lotta di Mahnaz, ci viene ricordato che la giustizia non è mai scontata, che le voci delle donne devono essere ascoltate e che la battaglia contro il patriarcato è tutt’altro che finita. Altri film in concorso, come quelli di Joachim Trier e Sebastian Lelio, offrono anch’essi spunti di riflessione, ma forse nessuno riesce a catturare l’essenza della lotta di genere con la stessa intensità. Le parole diventano pietre, e chi le pronuncia rischia di infrangere silenzi assordanti, sfidando un sistema oppressivo.