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Chi ha mai pensato a cosa frullava nella testa delle sorellastre di Cenerentola? Queste figure, sempre relegate a brutti anatroccoli, con denti che sembrano usciti da un film horror, servono solo a mettere in risalto la bellezza della protagonista. Ma cosa accadrebbe se, per una volta, la storia venisse raccontata dal loro punto di vista? Emilie Blichfeldt, regista norvegese, decide di rispondere a questa domanda con il suo film The Ugly Stepsister.
Il film e la sua genesi
Questo lungometraggio, frutto di un progetto di tesi per la Norwegian National Film School, cavalca l’onda della rivisitazione delle fiabe che, come un brutto sogno, continua a perseguitarci. Non è solo una rivisitazione, ma un vero e proprio atto di ribellione contro l’immagine idealizzata delle donne. La Blichfeldt si è messa nei panni della sorellastra e ha scoperto qualcosa di agghiacciante: il dolore di non essere mai abbastanza. “Quando il principe l’ha respinta, ho sentito la sua vergogna e il suo dolore. Anch’io ho vissuto sotto il peso della bellezza. Chi non lo ha fatto?” Ecco, ci troviamo di fronte a una regista che ha azzardato a mettere in discussione il mito della bellezza. E ci riesce alla grande.
Una storia di orrori e desideri
Ambientato nell’Europa del XVIII secolo, il film inizia con Elvira e sua sorella Alma che seguono la madre vedova per trovare marito. Ma il nobile Otto non è quel che sembra, e la loro vita si trasforma in un incubo. Elvira, la protagonista, non è solo grassa e impacciata. È un simbolo di tutte le donne che sentono il peso degli ideali irraggiungibili. La sua vita è costellata da sogni infranti e da un continuo tentativo di adattarsi a standard di bellezza impossibili. Perché? Perché la bellezza è un’arma a doppio taglio. E qui entra in gioco la satira: mentre le sorellastre si piegano a queste pressioni, la bella Agnes si concede la libertà di vivere la propria sessualità, ma a caro prezzo. Un gioco di ruoli che ribalta le aspettative, come se la Blichfeldt volesse dirci: “Guardate, la bellezza fa male, e chi se ne frega delle favole!”
Corpo e mente: un sacrificio inaccettabile
La regista non si limita a raccontare una storia, ma affronta il corpo horror in modo crudo e diretto. Elvira subisce interventi grotteschi, il suo corpo viene trasformato per soddisfare le aspettative altrui. La violenza sul corpo diventa una metafora della violenza sociale. “Sangue, ossa spezzate, parassiti ingeriti per perdere peso”: una visione brutale che ci costringe a guardarci dentro. Non è affatto un viaggio piacevole, ma chi ha detto che le favole debbano essere dolci? La Blichfeldt ci mostra che dietro ogni sorriso si nasconde un dolore inenarrabile. E mentre Elvira diventa bella, la sua sanità mentale va in frantumi. La perversione della bellezza viene esibita come un’orrenda verità: non c’è riscatto in questa storia.
Un’analisi della fiaba
Le fiabe non sono solo racconti per bambini. Sono un laboratorio antropologico, una finestra su una società che gioca con le ambizioni e le paure. La fiaba di Cenerentola è un perfetto esempio di come la crudeltà possa nascondersi dietro un velo di dolcezza. Le sorellastre si amputano i piedi per entrare nella scarpetta di cristallo, e chi non ha mai desiderato di sacrificare tutto per ottenere ciò che desidera? In questo modo, la Blichfeldt non solo racconta, ma critica. La bellezza è un inganno, una trappola. E, in fondo, il messaggio è chiaro: non fidarti mai della tua famiglia acquisita, perché possono sempre cercare di metterti i bastoni tra le ruote.
Il messaggio di The ugly stepsister
Il film di Blichfeldt non si limita a raccontare la storia della sorellastra, ma la ribalta completamente. Si tratta di una critica sociale che mette in luce il dolore e l’alienazione di chi è sempre stato visto come il cattivo della favola. La bellezza, in questa storia, non è mai una benedizione, ma una maledizione. Cosa resta di Elvira quando tutto è detto e fatto? La sua bellezza è solo una maschera che nasconde un’anima spezzata. E, mentre ci fa ridere e piangere, ci costringe a riflettere su un tema più profondo: il dolore di non essere mai abbastanza.