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Nel panorama cinematografico contemporaneo, pochi nomi evocano tanto orrore e fascino quanto quello di Josef Mengele, l’infame “Angelo della Morte” dei campi di concentramento nazisti. Con il suo ultimo film, Kirill Serebrennikov ci invita a un viaggio inquietante attraverso le ombre della storia, cercando di penetrare la figura di un uomo che ha segnato un’epoca con le sue atrocità. Presentato in concorso a Cannes 78, “The Disappearance of Josef Mengele” si propone di decifrare l’enigma di un personaggio che, come un buco nero, attira e respinge allo stesso tempo.
L’ombra di Mengele
Il film inizia con una scena che stordisce: un professore brasiliano esamina le ossa di Mengele, cercando di ricostruire la vita di un uomo che ha contribuito a scrivere pagine buie della storia. August Diehl, nella sua interpretazione, è un’ottima scelta, capace di rendere il personaggio tanto affascinante quanto inquietante. La sua presenza si fa sentire in ogni inquadratura, ma, paradossalmente, la sua vera essenza rimane inafferrabile. Come si può comprendere un uomo che ha scelto di abbandonare ogni umanità? La narrazione si muove tra frammenti di vita, come un mosaico che si compone pezzo dopo pezzo, ma mai in modo completo.
Un viaggio tra i ratti nazisti
Serebrennikov, adattando il libro di Olivier Guez, ci conduce lungo le rotte seguite dai nazisti in fuga verso il Sud America. Tra Argentina, Paraguay e Brasile, il film esplora un periodo che abbraccia tre decadi, dal 1949 al 1979, anno della morte di Mengele. Qui, l’ex medico nazista vive sotto falso nome, sperando di sfuggire alla giustizia. La figura di Rolf, suo figlio, diventa un elemento centrale: il suo tentativo di contattare il padre è carico di tensione e paura, quasi come se stesse cercando di scoprire i segreti di un abisso. Quella fuga, quel tentativo di riunirsi, raccontano un legame spezzato, ma anche un’umanità perduta.
I dettagli rivelatori
Ma cosa rende davvero “The Disappearance of Josef Mengele” un’opera così potente? La risposta, come spesso accade, è nei dettagli. L’abilità del regista sta nel saperci mostrare che le atrocità non sono solo azioni clamorose, ma anche piccole interazioni quotidiane. Le scene in cui Mengele saluta il padre o accarezza il suo cane possono sembrare banali, ma diventano portali verso una comprensione più profonda del male. La risposta di Mengele a Rolf riguardo Auschwitz è, per quanto diretta, insufficiente. È come se il film dicesse: “Non c’è risposta giusta per ciò che hai fatto”.
La paranoia come filo conduttore
Il film si snoda tra una serie di eventi che riflettono la paranoia di Mengele. La sua continua paura di essere scoperto si traduce in una narrazione che tiene lo spettatore col fiato sospeso. Non si tratta solo di una caccia al tesoro, ma di un tentativo di decifrare una figura che ha abbracciato senza riserve l’ideologia nazista. Qui, il regista si distacca da una visione puramente intellettuale; ci invita a riflettere su cosa significhi realmente comprendere il male. È facile condannare, ma più difficile è penetrare l’oscurità dell’anima umana.
Un viaggio senza conclusione
Alla fine del film, rimaniamo con più domande che risposte. Serebrennikov non cerca di darci una soluzione, ma ci lascia con un senso di inquietudine. La figura di Mengele, pur avendo un volto e una storia, rimane un enigma irrisolvibile. Eppure, è proprio in questa incertezza che risiede la potenza del racconto. Come spesso accade nella vita, non tutto ha una risposta chiara. La ricerca dell’Angelo della Morte ci porta a esplorare non solo il passato, ma anche i meandri più bui della nostra stessa umanità. E in questo gioco di luci e ombre, forse, troviamo anche una riflessione sulla nostra società attuale.