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Il documentario Put Your Soul on Your Hand and Walk, diretto da Sepideh Farsi, rappresenta un’importante riflessione sulla complessa situazione a Gaza, un luogo assediato che vive una realtà di conflitto e sofferenza. Attraverso un’innovativa forma di diario visivo, la regista riesce a catturare non solo la devastazione, ma anche la resilienza degli abitanti. La mancanza di reazioni alla fine della proiezione è emblematica: si è di fronte a una testimonianza che lascia senza parole.
Un legame profondo: l’amicizia tra Farsi e Fatma
La regista e la giovane fotografa Fatma Hassouna instaurano un forte legame di amicizia, che si traduce in un dialogo intenso attraverso videochiamate. Fatma, ventiquattrenne, racconta la sua vita quotidiana tra le macerie della città, perdendo persone care e mantenendo viva la speranza di un futuro migliore. La sua storia diventa il fulcro del documentario, mostrando un’esistenza segnata da lutti e privazioni, ma anche da una profonda connessione con la terra di Gaza.
La vita tra le macerie
Fatma descrive la difficoltà di vivere in un luogo dove una sigaretta può costare fino a 50 dollari, evidenziando un’evidente crisi economica e umanitaria. Nonostante ciò, il suo sogno rimane quello di visitare Roma, anche se la sua vera casa è Gaza. La regista riesce a trasmettere l’intensità emotiva di queste conversazioni, alternando momenti di silenzio e di ascolto con la frenesia della vita che continua nonostante tutto.
Dinamicità e immobilismo: una lotta interiore
Il film riesce a rappresentare un contrasto tra dinamismo e immobilismo, mostrando come la vita possa continuare a pulsare anche in condizioni di estrema difficoltà. Durante una delle videochiamate, un bombardamento vicino a Fatma interrompe la conversazione, creando una tensione palpabile. La reazione rapida di Fatma, che inquadra l’esplosione con la sua videocamera, lascia Farsi scioccata, ma testimonia la capacità di adattamento della giovane. Questo scambio diventa un esempio perfetto di come la vita e la morte coesistano in un ambiente così ostile.
Un’estetica autentica e imperfetta
La regista utilizza una estetica grezza e imperfetta, che riflette le limitazioni tecniche del contesto in cui si trova. La qualità delle immagini e delle connessioni può risultare instabile, ma questo diventa parte integrante della narrazione. Gli spettatori si ritrovano a fissare lo schermo in attesa che la connessione torni, mentre Fatma racconta dei suoi sforzi per procurarsi acqua e legna, o recita le sue poesie. Questi momenti creano un’atmosfera di attesa e sospensione, accentuando il contrasto tra vita e morte.
Un epilogo tragico e una riflessione profonda
Purtroppo, l’epilogo del film è segnato da un evento tragico: il giorno dopo la selezione del documentario per il Festival di Cannes, Fatma perde la vita in un attacco aereo. Questa notizia colpisce duramente gli spettatori, lasciando una sensazione di impotenza e immobilismo. Come osserva Sergio Sozzo, in un’epoca in cui si è costantemente bombardati da contenuti, è difficile per il cinema restituire una profondità reale alle immagini che raccontano la verità.
È necessario interrogarsi se sia possibile dare voce a queste esperienze attraverso il medium cinematografico, o se, al contrario, il reale debba parlare per sé. In ogni caso, l’impatto emotivo del film è innegabile, invitando gli spettatori a riflettere sulla loro posizione di fronte a una guerra che continua a mietere vittime innocenti.