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Immaginate di trovarvi in un futuro dove l’ossigeno è diventato un bene raro, dove le persone si rifugiano in bunker sotterranei come topi in trappola. Una situazione da incubo, non è vero? Eppure, è esattamente il contesto in cui si muovono i protagonisti di “Breathe – Fino all’ultimo respiro”. Un film che, pur cercando di avvolgerci in un’atmosfera di tensione e mistero, riesce a trasmettere solo un’inquietante sensazione di déjà vu, come indossare occhiali da sole in una notte buia. Darius, interpretato da Common, è il marito che sembra scomparso nel nulla, mentre Maya (Jennifer Hudson) e la figlia Zora (Quvenzhané Wallis) si ritrovano a dover affrontare una coppia misteriosa, Milla Jovovich e Sam Worthington, che non sono esattamente i benvenuti nel loro rifugio. La trama si sviluppa in un continuo tira e molla, dove la lotta per la sopravvivenza diventa una farsa di cliché e dialoghi strappati da un copione scadente.
L’illusione di un mondo futuristico
Il regista Stefon Bristol, con la sua ambizione di creare un thriller sci-fi che ci risucchi nel profondo di un labirinto di misteri, finisce per presentarci un’opera che galleggia in superficie. Le immagini che dovrebbero incatenarci al racconto sono, in realtà, solo macerie di un’idea scialba, come un deserto mentale dove non si possono trovare risposte, solo domande che rimbalzano come palloni sgonfi. E voi vi chiedete: ma è possibile che in un mondo così desolato non ci sia neanche un briciolo di creatività? Non sarebbe stato più interessante esplorare la follia umana in una situazione estrema? No, meglio rimanere ancorati a una trama prevedibile, in cui il vero nemico sembra essere la mancanza di originalità.
Un cast sprecato e una sceneggiatura inconsistente
Con un cast di nomi noti e talentuosi come Jennifer Hudson e Milla Jovovich, ci si aspetterebbe una performance che brilli. Invece, assistiamo a un susseguirsi di situazioni che sanno di già visto, di recitazione forzata e di dialoghi che sembrano scritti da un adolescente che gioca a fare lo sceneggiatore. La tensione che dovrebbe serpeggiare in ogni scena è soppiantata da una noia mortale, come se i personaggi stessi fossero consapevoli di trovarsi in un film senza senso, un po’ come voi che state leggendo queste righe. E vi domandate: ma davvero è così difficile creare qualcosa di nuovo in un genere così ricco di possibilità? Oppure ci si è arresi, accettando di riciclare idee e storie come se fossero vestiti usati in un mercatino dell’usato?
La mancanza di ossigeno è solo un pretesto
In “Breathe”, l’assenza di ossigeno diventa una metafora per la mancanza di idee fresche. È un film che si consuma rapidamente, lasciando dietro di sé solo delle briciole di buone intenzioni. E mentre i personaggi lottano per l’aria, noi ci ritroviamo a lottare per mantenere viva la nostra attenzione. L’idea di una società in crisi, di una lotta per la sopravvivenza, viene sprecata in una trama che non decolla mai, come un razzo che esplode prima di raggiungere il cielo. E così, ci si chiede se non sarebbe stato meglio rimanere a casa, a guardare le repliche di qualche vecchio film cult, piuttosto che affrontare questo insipido tentativo di intrattenimento. Il cinema, in fondo, dovrebbe farci sognare, non farci addormentare.
In conclusione, “Breathe – Fino all’ultimo respiro” è l’ennesima dimostrazione che, in un’epoca in cui il cinema potrebbe esplorare temi profondi e complessi, si opta invece per un approccio superficiale e sterile. Rimanete pure nei vostri bunker, con i vostri occhiali da sole, perché a questo giro il cinema ha decisamente fallito. Ma chi se ne frega, giusto? Al fondo, ci sono sempre altre storie da raccontare, altre esperienze da vivere, e magari un giorno ci ritroveremo a respirare di nuovo aria fresca, in un mondo dove il cinema non sia solo un pallido riflesso delle nostre paure.