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Quando si parla di cinema, ci si aspetta di immergersi in un mondo di emozioni e storie accattivanti. Eppure, ci sono momenti in cui il disagio e la crisi emergono prepotentemente. Così si presenta l’omaggio a Adriano Aprà, una figura che ha saputo catturare l’essenza di un’epoca attraverso il suo lavoro, e la riscoperta della serie di Fassbinder “Otto ore non sono un giorno”. Due mondi distanti, ma uniti dalla capacità di farci riflettere su un presente che, a volerlo, è tutto fuorché roseo.
Il tributo a un maestro: Adriano Aprà
La celebrazione di Aprà non è solo un atto di venerazione, ma un vero e proprio tuffo in un mare di luci e ombre. In un’epoca in cui il cinema latinoamericano si trovava a fronteggiare le violenze e le ingiustizie dei regimi dittatoriali, Aprà ha scelto di dare voce a chi non ne aveva. L’evento notturno, che si svolge nel contesto della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, si trasforma in un rito collettivo. Una celebrazione della sua eredità, che si annida nei lavori di giovani registi che hanno avuto il privilegio di incrociare i suoi sentieri. Ma chi se ne frega delle celebrazioni quando il mondo continua a girare in modo così assurdo?
Un giorno nel tempio-studio di Aprà
Nel film “Io credo nell’inconoscibile”, un gruppo di cineasti si riunisce nel tempio-studio di Aprà. Ci si potrebbe aspettare un’ode all’arte, ma in realtà è un viaggio nel caos della mente umana. Questi giovani registi, Francesco, Edoardo e Marco, esplorano la propria creatività mentre si confrontano con il peso del passato. La loro è una ricerca disperata di identità in un panorama cinematografico che sembra ignorarli. Non è un caso che il loro progetto sia legato all’Associazione soQQuadra, un nome che suona come il grido di chi si batte contro un sistema che continua a schiacciare il diverso.
Fassbinder: il genio scomodo
Se pensate che il cinema tedesco sia tutto ordine e pulizia, preparatevi a essere spiazzati. Con “Otto ore non sono un giorno”, Fassbinder ci tira giù dalla torre d’avorio e ci fa sprofondare nella melma della vita quotidiana. La serie, che ha fatto la storia della televisione tedesca, non è solo un insieme di episodi: è un atto di ribellione. Jochen e Marion, Nonna e Gregor, Franz e Ernst… chi se ne frega delle loro storie personali? Tutti noi siamo parte di questo ingranaggio, dove la lotta per la sopravvivenza si intreccia con relazioni tossiche e incertezze lavorative. La domanda sorge spontanea: chi può davvero dire di essere libero in un mondo che ci incatena a scadenze e doveri?
La genialità di Fassbinder risiede nel suo sguardo crudo e disincantato sulla realtà. La sua serie, pur essendo un successo di pubblico, ha sollevato critiche aspre. Perché? Perché mostra la verità nuda e cruda. Non offre soluzioni, solo un riflesso di un’umanità in crisi. Le sue storie si intrecciano con le questioni sociali più scottanti: affitti stratosferici, pregiudizi razziali, l’incapacità di vivere in un sistema che ci sfrutta. Eppure, in questo caos, Fassbinder lascia intravedere una scintilla di speranza. E noi? Siamo pronti a coglierla o preferiamo continuare a frignare sulla nostra vita mediocre?
Il destino di Uirá
Parlando di speranze infrante, non si può non menzionare “Uirá, viaggio di un indio nella terra dei morti”. Un film che racconta la storia di un indio in cerca di Dio, ma che si scontra con la brutalità della civiltà. Qui, la macchina da presa diventa testimone di un’ingiustizia secolare: la morte di un figlio a causa delle malattie portate dai bianchi. La depressione del protagonista è palpabile e la sua ricerca di Maíra, divinità creatrice, diventa un’ossessione. Ma alla fine, che cos’è la civiltà se non una maschera che cela la barbarie?
Un atto d’amore e di dolore
Il film di Gustavo Dahl è un atto d’amore, ma anche un grido di dolore. La lotta tra indigeni e colonizzatori è un tema ricorrente, eppure la storia di Uirá riesce a colpirci nel profondo. Non possiamo ignorare il peso della storia, le violenze subite e l’assenza di giustizia. E, mentre ci perdiamo in queste riflessioni, non possiamo fare a meno di chiederci: che fine hanno fatto le promesse di un futuro migliore?
Un’epoca di riscoperta
In un contesto di crisi, è importante riscoprire opere come quelle di Aprà e Fassbinder. Non sono solo film; sono testimonianze di una lotta continua. Ma chi se ne frega della lotta se il mondo è un palcoscenico di ipocrisie? Forse la vera domanda da porsi è: siamo pronti a guardare in faccia la verità, per quanto scomoda possa essere? Alla fine, il cinema non è altro che un riflesso della nostra società, e spetta a noi decidere se vogliamo continuare a vivere nell’illusione o affrontare la realtà con coraggio.