Un'opera che esplora il tormento e l'isolamento di un alieno in un mondo ostile.
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Quando si parla di crisi esistenziale, chi meglio di David Bowie può rappresentarla? Con “Lazarus”, il Duca Bianco si tuffa in un abisso di disperazione, mentre Manuel Agnelli lo accompagna in un viaggio che rasenta il delirante. Ma chi credete di prendere in giro? La rappresentazione teatrale va oltre il semplice intrattenimento; è un vero e proprio schiaffo in faccia a chi si ostina a non vedere il dolore umano in tutta la sua brutale evidenza. La scena finale, con il suo protagonista che esala il suo ultimo respiro su un lettino, è un’immagine che brucia come un sigaro spento. E cosa ci insegna tutto ciò? Che possiamo combattere i nostri demoni, ma solo per un giorno, giusto? Giocando a fare i supereroi, mentre il mondo attorno a noi si sgretola.
Fortini avrebbe detto che “la mia prigione vede più della tua libertà”. E in effetti, Bowie ha saputo farci entrare nella sua gabbia dorata, quella giostra di eccessi e vulnerabilità che ci fa tanto male. “Lazarus” è una sorta di testamento artistico, ma non si tratta di un semplice addio. È piuttosto un urlo, un grido di aiuto, una richiesta di attenzione a quel dolore che molti preferiscono ignorare. L’adattamento italiano, in scena al Teatro Argentina, riesce a catturare questa essenza disturbante. La regia di Valter Malosti non si limita a mettere in scena un testo; lo riscrive, lo reinterpreta, lo ribalta. E voi pensate davvero di poter restare indifferenti?
È curioso notare come i brani di Bowie, qui utilizzati, diventino i veri protagonisti della narrazione. La musica si trasforma in un linguaggio universale, capace di esprimere ciò che le parole non riescono a dire. Ma attenzione! Non si tratta di un semplice musical, dove la melodia fa da sfondo. Qui, ogni nota è tagliente come un rasoio e ogni parola, un colpo al cuore. La scelta di Agnelli di cantare i pezzi più rock e di affidare a Casadilego le parti più eteree crea un contrasto che fa vibrare l’anima. La domanda è: quanto ci spaventa sentirci così esposti? La risposta è semplice: ci spaventa da morire.
In un mondo dove la sovrainformazione ci bombarda, la rappresentazione di “Lazarus” diventa un atto di ribellione. La scenografia, curata da Nicolas Bovey e arricchita da installazioni video, ci catapulta in un universo distorto e alienante. Ed è qui che la mente inizia a viaggiare. Ma vi rendete conto di quanto sia facile perdere il filo della realtà? La strana figura di Valentine, interpretata da Dario Battaglia, si muove in questo contesto come un fantasma inquietante, un messaggero di un’umanità che ha smarrito il suo senso. Non è un caso che la storia di Newton si intrecci con la mitologia di Bowie. Si fa fatica a capire dove finisca il personaggio e dove inizi l’artista stesso.
Non si può chiudere un tale spettacolo con una semplice conclusione. La realtà è che “Lazarus” rimane appeso nell’aria come un odore di fumo. Non c’è un finale felice, non ci sono risposte facili. Solo una serie di domande che ci bruciano dentro. E la verità? La verità è che, mentre ci perdiamo in queste visioni, ci rendiamo conto che non è mai davvero finita. Insomma, chi ha voglia di affrontare il proprio dolore, quando c’è tanto da fare per dimenticarlo? Ecco, questo è “Lazarus”: un viaggio che lascia il segno, ma che non ci offre alcuna via di fuga.