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La potenza evocativa del cinema si manifesta in modi inaspettati, e nulla sembra più suggestivo del nuovo film di Oliver Laxe, *Sirāt*. Presentato in concorso alla 78esima edizione del Festival di Cannes, questo film non è solo una narrazione, ma un’esperienza immersiva che ti porta a riflettere sulla vita, la morte e tutto ciò che c’è nel mezzo. Con una trama che ruota attorno alla scomparsa di una giovane durante un rave in Marocco, Laxe ci conduce in un viaggio che è insieme fisico e spirituale, mescolando elementi di cinema mainstream e filosofia sufista in un mix avvincente.
Un ponte tra il mondo dei vivi e dei morti
Il titolo stesso, *Sirāt*, è evocativo. Nella tradizione islamica, il Sirāt rappresenta il ponte che ogni anima deve attraversare nel Giorno del Giudizio, un passaggio che determina il destino eterno. Questa immagine diventa il fulcro attorno al quale ruota la storia di Luis, interpretato da Sergi López, un padre che si avventura nel deserto per ritrovare sua figlia. L’ambientazione marocchina, con le sue dune e il paesaggio arido, non è solo uno sfondo, ma un protagonista silenzioso che amplifica le tensioni e le emozioni del racconto.
La scelta di Laxe di ambientare la sua storia in un rave, un contesto di libertà e ricerca di evasione, si rivela cruciale. Qui, la musica techno non è solo un accompagnamento sonoro; diventa parte integrante dell’esperienza visiva e emotiva. Ricordo quando, durante una festa in montagna, la musica sembrava fondersi con l’aria e il paesaggio, creando una sensazione di trascendenza. E così, *Sirāt* riesce a catturare quell’essenza, con il suo sound system che vibrano in sintonia con le tempeste di sabbia che avvolgono i protagonisti.
Il viaggio interiore e le esplosioni finali
Il film di Laxe si evolve in un racconto che oscilla tra momenti di quiete e esplosioni drammatiche. Le tempeste di sabbia, generate dalla potenza della musica, diventano una metafora della purificazione e della colpa. È in questo contesto che la narrazione si fa densa, lasciando lo spettatore con domande profonde sulla vita e sulla morte. L’uso di attori non professionisti, membri della comunità raver, conferisce autenticità alle interazioni, rendendo il tutto ancora più coinvolgente. E qui, mi viene in mente un’altra esperienza: quando ho assistito a un film girato con attori non professionisti, la differenza in termini di verità e immediatezza era palpabile.
Nonostante il film celebri la ritualità tribale e la trance collettiva, non mancano momenti di brutalità e rivelazioni spietate. Le casse sonore diventano monumenti nel deserto, testimoni silenziosi di un passaggio che, sebbene doloroso, è necessario. Questa dualità di vita e morte, di festa e lutto, di ricerca e accettazione, rende *Sirāt* un’opera complessa e affascinante.
Un’opera che sfida le convenzioni
In un’epoca in cui il cinema tende a seguire formule predefinite, *Sirāt* si distingue per la sua audacia e il suo approccio sincretico. Laxe non teme di mescolare generi e stili, creando un film che è insieme un road movie, un dramma e un’esperienza sensoriale. La sua capacità di incapsulare la ricerca umana attraverso un linguaggio visivo unico è ciò che rende questo film così speciale. Proprio come il deserto che avvolge i personaggi, *Sirāt* è un vasto spazio pieno di mistero e scoperta.
Personalmente, ritengo che opere come questa siano fondamentali per il panorama cinematografico contemporaneo. Offrono uno spazio di riflessione, invitando lo spettatore a mettere in discussione le proprie percezioni e credenze. E, in un mondo così frenetico, questa è una forma di arte che ha bisogno di essere celebrata.