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Quando si parla di cinema, si parla anche di emozioni, di esperienze condivise e di quel momento unico in cui il pubblico applaude al termine di un film. Ma cosa succede quando questo applauso diventa un dato misurabile? Negli ultimi anni, le standing ovation sono diventate una sorta di cartina tornasole del successo di un film, specialmente nei festival di cinema più prestigiosi. Tuttavia, c’è un rovescio della medaglia che merita di essere esplorato.
Un tradizione trasformata
Nei festival cinematografici come Cannes e Venezia, l’applauso prolungato è una tradizione che risale a decenni fa. Ricordo quando, nel 1984, il film “C’era una volta in America” di Sergio Leone ricevette ben 15 minuti di standing ovation. Quella era un’epoca in cui il pubblico applaudiva per pura gioia e apprezzamento. Oggi, però, questo gesto è diventato qualcosa di forzato, un rituale che sembra più un obbligo sociale che un’autentica espressione di entusiasmo. I manifesti e i comunicati stampa, che ora includono la durata dell’applauso, trasformano l’apprezzamento in una sorta di “voto” che può influenzare le sorti di un film.
Il dato che riduce l’arte
Come ha sottolineato un dirigente di un importante distributore indipendente, misurare la standing ovation riduce un film a un singolo dato, un numero che può sembrare attraente, ma che di fatto non racconta la storia dell’opera. La gente comincia a ricordare i film solo in base al minutaggio del plauso, come se il valore artistico di un’opera potesse essere quantificato in minuti e secondi. Ma è davvero giusto? Pensando a questo, mi viene in mente la provocazione di Nicolas Cage, che durante la proiezione di “The Surfer” ha incoraggiato il pubblico a intonare il suo nome per prolungare l’applauso. E ci chiediamo: quanto di questo applauso è genuino?
Il paradosso della positività
La standing ovation, che dovrebbe essere un momento di celebrazione, si è così trasformata in un rituale esasperato, applicato a ogni film di alta qualità, perdendo la sua autenticità. Il pubblico si trova sempre più a ricoprire il ruolo di follower, partecipando a una performance sociale piuttosto che vivendo un’esperienza cinematografica significativa. Eppure, le espressioni negative come i fischi, che un tempo erano una forma onesta di critica, sono praticamente scomparse. È come se la cultura del consenso avesse preso il sopravvento, appiattendo il dibattito critico attorno al cinema. Come molti sanno, il cinema è un’arte che provoca reazioni profonde e diverse; perché allora ci limitiamo a applaudire?
Il potere dell’applausometro
Quest’anno, la pagina Wikipedia dedicata all’applausometro del Festival di Cannes ha visto l’aggiunta di “Sentimental Value” di Joachim Trier, che ha ricevuto ben 19 minuti di applausi durante la sua premiere. Al primo posto, rimane “Il labirinto del fauno” di Guillermo Del Toro, con 22 minuti. Eppure, mentre ci meravigliamo di questi numeri, dobbiamo chiederci: cosa rappresentano realmente? Sono segni di qualità, o piuttosto di un sistema che premia la quantità di applausi, riducendo l’arte a una mera competizione?
Una riflessione finale
David Kajganich, scrittore e produttore, ha sollevato un punto interessante: la standing ovation è un modo per il pubblico di esprimere non solo il proprio apprezzamento per il film, ma anche per le persone coinvolte nella sua realizzazione. Questo aspetto umano è fondamentale, ma non deve sostituire il pensiero critico. La vera bellezza del cinema risiede nel suo potere di farci riflettere, di farci discutere, di suscitare emozioni e opinioni diverse. Dunque, mentre applaudiamo, non dimentichiamo di pensare e di criticare. Perché, in fondo, è questo che rende il cinema un’arte viva.