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In un mondo dove il dolore sembra essere l’unico compagno di viaggio, si staglia la figura di Selma, una donna cecoslovacca che, fuggita dalla sua terra, si ritrova a lavorare in una fattoria americana. Ma non è solo il lavoro a tormentarla; la sua cecità imminente è un destino da affrontare, mentre lotta per garantire un futuro migliore a suo figlio. E se pensate che le cose possano solo migliorare, preparatevi a essere smentiti. Un amico, quel bastardo, le ruba i risparmi destinati all’operazione del bambino. Ecco il punto di partenza di un calvario che sembra non finire mai. Sì, perché Dancer in the Dark è un dramma che si nutre di crisi e disperazione, confezionato con la patina di un musical che, a dirla tutta, fa venire il vomito.
La satira del dolore
Dancer in the Dark si propone come un grandioso esperimento cinematografico, ma non fatevi ingannare. La Palma d’oro al Festival di Cannes è solo un riconoscimento che amplifica l’ego di un regista già noto per il suo sadismo cinematografico. Lars von Trier non si limita a raccontare una storia, no, lui la strizza come un limone, fino all’ultima goccia di lacrime. Come se non bastasse, il film è girato in una sorta di buio totale, dove gli elementi visivi vengono ridotti all’osso. E chi meglio della talentuosa Björk per portare il peso di una narrazione che urla “guardate quanto sto soffrendo!”
Un melodramma senza fine
Intendiamoci, chi ha mai detto che il melodramma non possa essere un’arma? Von Trier sa esattamente come affondare il coltello nella piaga, mescolando musica e tragedia in un cocktail avvelenato. La sua regia è un esercizio di formalismo che, paradossalmente, si scontra con la sua mancanza di reale sostanza. Le scene si susseguono come un fiume in piena, e la protagonista, sempre più oppressa, cerca di trovare rifugio in un mondo di musical, dove sogni e realtà si mescolano in un abbraccio mortale. Ma quanto può durare questo illusorio comfort? Giusto il tempo di un paio di canzoni, prima che la vita la colpisca di nuovo.
Il sadismo di un regista
Come se non bastasse, larghi spazi di narrazione vengono riempiti da un sadismo che non ha pietà. Dancer in the Dark è una sorta di specchio distorto della società, dove la compassione è solo un miraggio. Il regista, con la sua finta genialità, si diverte a torturare il suo pubblico, giocando al gatto col topo mentre Björk si dibatte in un mare di miseria. La sua interpretazione è straziante e, a tratti, insopportabile da guardare. Ma, ehi, chi ha bisogno di un po’ di umanità quando si può ottenere un applauso da un pubblico inorridito?
Un’opera tronfia
Dancer in the Dark è quindi un’opera tronfia, che cerca di affascinare e commuovere attraverso mezzi subdoli. La verità è che, per apprezzare questo film, bisogna affrontarlo con una certa distanza emotiva, quasi come se fosse necessario odiare ogni suo fotogramma per liberarsi dalla sua morsa. E così, tra le note di un musical che non riesce a svanire, ci si chiede: è davvero necessario tutto questo? La risposta, per alcuni, è un clamoroso no. Per altri, è solo un’altra prova della follia del cinema contemporaneo. E voi, cosa ne pensate?