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Quando si parla di cinema, ci sono opere che sembrano riflettere più sulla vita reale che sulla finzione stessa. “L’infinito”, il debutto alla regia di Umberto Contarello, è uno di quei film. Immergendosi nel mondo di un sceneggiatore alle prese con la sua decadenza personale e professionale, Contarello ci offre uno sguardo profondo e, a tratti, autoindulgente sulla sua esistenza. La storia di Umberto, interpretato dallo stesso Contarello, è un vero e proprio viaggio tra cinismo, alcol e tentativi di riconciliazione familiare. Un viaggio che, come in una pellicola di Sorrentino, si sviluppa tra dialoghi affilati e un’estetica curata, ma che mantiene una sua identità distintiva.
Un racconto di decadenza e ricerca di significato
Umberto, il protagonista, è un uomo di 64 anni che si trova a un bivio: da un lato, la carriera che sta languendo; dall’altro, una vita personale altrettanto in crisi. La sua relazione con la figlia Elena, interpretata da Margherita Rebeggiani, è segnata da tentativi di ricucire i rapporti, mentre lui si ritrova a fare da mentore a una giovane sceneggiatrice, Carolina Sala, intrappolata nella ricerca di un colpo di scena che possa dare vita al suo progetto. Questa dinamica tra le generazioni riflette non solo le difficoltà di Umberto, ma anche una critica verso il mondo del cinema moderno e le sue logiche spesso superficiali.
Un film che sfida le convenzioni narrative
È in questo contesto che il film si fa portavoce di una ribellione. Contarello, attraverso il suo alter ego, scardina le regole del “funzionamento” narrativo, sottolineando che le storie devono essere belle o brutte, senza intermezzi. “Funzionare” è una parola che non ha posto quando si parla di emozione e creatività. Questo approccio è una dichiarazione d’intenti: il film diventa una sorta di manifesto contro la standardizzazione delle trame e il conformismo del mercato, dove ogni storia deve contenere un momento “what the fuck” per trattenere l’attenzione degli spettatori. Ma Contarello si chiede: è davvero necessario? È qui che emerge la vera essenza di L’infinito, un’opera che invita a riflettere sulla vera natura della narrazione.
Estetica e influenze sorrentiniane
Visivamente, L’infinito si distingue per un bianco e nero evocativo, grazie alla maestria di Daria D’Antonio. Le inquadrature fisse e semplici mettono in risalto i volti e le emozioni dei personaggi, creando un’atmosfera che ricorda le atmosfere sorrentiniane, ma con una propria autenticità. La scelta di un’estetica così pura e minimale è in grado di valorizzare i dialoghi incisivi di Contarello, che si intrecciano con le sue riflessioni personali. Ogni scena è costruita con cura, e il film riesce a catturare momenti di dolcezza e malinconia, come la scena finale che lascia gli spettatori con un sorriso enigmatico.
Un autoritratto tra ironia e narcisismo
La figura di Umberto si presenta come un autoritratto che riflette non solo le fragilità dell’autore, ma anche un certo narcisismo. C’è un gioco sottile tra l’autoindulgenza e una velata ironia che attraversa il film, evitando di scivolare nel cliché dell’autocommiserazione. Contarello riesce a mantenere una distanza critica rispetto al suo personaggio, rendendolo, in un certo senso, anche un simbolo di quella generazione di artisti che si sente disorientata in un panorama cinematografico in continua evoluzione.
Un’opera che invita alla riflessione
In conclusione, L’infinito non è solo un film su un uomo e le sue battaglie, ma è un discorso aperto sullo stato del cinema contemporaneo. È un film che, pur essendo ricco di riferimenti culturali e di esperienze personali, riesce a parlare a tutti noi, invitandoci a riconsiderare cosa significhi realmente raccontare una storia. E, come sappiamo, le storie – siano esse belle o brutte – sono ciò che ci rende umani. Personalmente, ritengo che ogni appassionato di cinema dovrebbe dedicare un po’ di tempo a questo film, perché offre spunti di riflessione che potrebbero rivelarsi sorprendenti. E chissà, magari anche un po’ liberatori.