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Il lungometraggio Abele, diretto da Fabian Volti, si presenta come un’opera che fonda la propria narrazione sull’attività pastorizia, una pratica che si scontra con il progresso e le difficoltà storiche. Proiettato al MedFilm Festival, questo film si distingue per la sua capacità di catturare l’essenza di un mondo in via di estinzione, collocato tra la Palestina e la Sardegna.
Un paesaggio di sfide e speranze
All’inizio del film, un giovane osserva da una collina un accampamento di pastori in Palestina, caratterizzato da costruzioni di lamiera e da un ambiente arido. La scena è arricchita da pannelli solari, simboli di una modernità che stenta a inserirsi in un contesto così tradizionale. Questa immagine rappresenta una metafora della lotta tra un passato rurale e un presente dominato da conflitti e sfruttamenti.
Il confronto tra culture
Abele racconta il destino di uomini che, pur mantenendo viva la loro tradizione, si trovano a dover affrontare pressioni esterne. In Palestina, i pastori sono minacciati dall’oppressione dei coloni israeliani, mentre in Sardegna, i loro omologhi devono muoversi in territori militarizzati, come il poligono NATO di Capo Teulada. Queste situazioni evidenziano la fragilità della vita pastorale, minacciata da forze storiche e politiche che ne alterano l’equilibrio.
Un’epoca in trasformazione
Il film riesce a trasmettere un senso di sospensione temporale, mostrando paesaggi e individui privi di un contesto storico chiaro. Inizialmente, i pastori sembrano esistere al di fuori del tempo, immersi in una quotidianità fatta di cammini e di attese. Le loro fatiche nel cercare cibo per le pecore in terre desolate parlano di una relazione ancestrale con la natura, dove ogni goccia di pioggia è una benedizione e ogni predatore un pericolo.
La voce dei protagonisti
Con il progredire della narrazione, la Storia irrompe nel racconto, modificando il legame tra i pastori e il loro ambiente. I mandriani palestinesi sono costretti a un nuovo esodo, mentre quelli sardi devono adattarsi a un contesto militarizzato, privato della propria libertà. La narrazione di Volti è elegante e incisiva, capace di evocare emozioni forti attraverso immagini potenti e dialoghi scarni.
Un messaggio universale
Il documentario non si limita a descrivere, ma invita a riflettere. Con un approccio sobrio, Volti riesce a trasmettere la complessità della situazione senza cadere in facili moralismi. I personaggi, pur nella loro sofferenza, rappresentano un simbolo di resistenza e di lotta contro l’oblio. Ogni scena è un richiamo alla memoria di una tradizione che si scontra con il presente e che merita di essere ascoltata.
Il film si inserisce in un contesto di festival e proiezioni, come quella che si svolgerà a Sassari il 7 novembre, dove il regista interagirà con il pubblico. È un’occasione non solo per apprezzare il lavoro visivo di Volti, ma anche per sostenere le famiglie di pastori palestinesi che vivono in condizioni di grande difficoltà.
Abele non è solo un film, ma un viaggio emotivo e intellettuale che invita a comprendere le sfide di un’arte antica e sempre attuale. Quest’opera offre uno sguardo profondo sulla condizione umana, richiamando l’attenzione su storie spesso dimenticate e su un patrimonio culturale che merita di essere preservato.